Come si è arrivati allo scontro di Lepanto
08-03-2025 15:14 - Il PUNTO DI....Domenico Bonvegna.
Quando ho manifestato su facebook l'intenzione di leggere il libro di Alessandro Barbero, “Lepanto. La battaglia dei tre imperi”, Editori Laterza (2010) più di un “amico” ha cercato di distogliermi: ma come leggi il libro scritto da uno che si è più volte manifestato “comunista”, perdi questo tempo, tra l'altro per un'opera di ben 769 pagine. Per la verità anch'io sono stato tentato di lasciar perdere, superando ogni tentazione, poi ho deciso e l'ho letto, Prima del libro di Barbero, avevo letto solo qualche opera che riguardava il periodo storico della battaglia, come uno studio di Arrigo Petacco o di Alberto Leoni.
Il poderoso testo di Barbero che si sviluppa intorno alla celebra battaglia navale del 7 ottobre 1571, si compone di ben 32 capitoli arricchiti da numerose note e da una ricca bibliografia. All'inizio troviamo 2 cartine geografiche per inquadrare in linea di massima i luoghi dove si svolge questa importante pagina di storia. Leggendo il libro di Barbero viene in mente la frase più volte citata: “la storia come maestra di vita”, non credo di esagerare, ma quei mesi che hanno portato allo scontro epocale di Lepanto, assomigliano molto a quello che sta succedendo oggi in Europa con la questione Ucraina. Forse basta sostituire i personaggi di allora con quelli di oggi. Anche se i fatti non si ripetono mai allo stesso identico modo. Ecco perché è importante ricordare un'altra frase: “chi sbaglia storia, sbaglia politica”.
Siamo nel XVI secolo l'Impero Ottomano raggiunge la sua massima espansione. La politica di conquista della Sublime Porta con Selim II, figlio di Solimano, stava conquistando tutti i territori della costa balcanica che appartenevano a Venezia. A farne prima le spese fu l'isola di Cipro. Senza preavviso, le truppe turche sbarcarono nell’isola, mettendola a ferro e fuoco ed entrando dopo 45 giorni di assedio a Nicosia. Restava, però, ancora in mani veneziane Famagosta, ma anche questa, nonostante una difesa eroica, cadde e il suo comandante, Marcantonio Bragadin, malgrado che l’atto di resa prevedesse salva la vita per tutti, fu orribilmente scorticato vivo. Il Barbero racconta come si è arrivati alla conquista dell'isola e delle due roccaforti. Tutto il lavoro di preparazione della flotta navale nell'Arsenale di Costantinopoli. E qui inizia il libro con la testimonianza del bailo della Serenissima a Costantinopoli, Marcantonio Barbaro.
Siamo nel XVI secolo l'Impero Ottomano raggiunge la sua massima espansione. La politica di conquista della Sublime Porta con Selim II, figlio di Solimano, stava conquistando tutti i territori della costa balcanica che appartenevano a Venezia. A farne prima le spese fu l'isola di Cipro. Senza preavviso, le truppe turche sbarcarono nell’isola, mettendola a ferro e fuoco ed entrando dopo 45 giorni di assedio a Nicosia. Restava, però, ancora in mani veneziane Famagosta, ma anche questa, nonostante una difesa eroica, cadde e il suo comandante, Marcantonio Bragadin, malgrado che l’atto di resa prevedesse salva la vita per tutti, fu orribilmente scorticato vivo. Il Barbero racconta come si è arrivati alla conquista dell'isola e delle due roccaforti. Tutto il lavoro di preparazione della flotta navale nell'Arsenale di Costantinopoli. E qui inizia il libro con la testimonianza del bailo della Serenissima a Costantinopoli, Marcantonio Barbaro.
L'ambasciatore veneto diventa un protagonista per le informazioni che passa al doge di Venezia. Naturalmente le difficoltà sono enormi, non solo per l'ostilità dell'ambiente turco, ma soprattutto per la lentezza dei tempi per ricevere le varie lettere e per la segretezza delle informazioni da far pervenire al Governo veneziano. Il Barbaro doveva sapersi destreggiare con la corte del sultano, stare attento a non farsi scoprire nel suo doppio gioco. Intanto Barbero ci fa conoscere Costantinopoli e la corte del sultano alcolizzato, con i suoi cinque visir, tutti nati cristiani, con gli abitanti dell'harem e con un finanziere ebreo.
“Gli occidentali erano persuasi, - scrive Barbero – che Selim fosse un ubriacone e una nullità”. Ma questo non significa che non avesse una politica. Apprendo con mia sorpresa i cinque visir o pascià che lavoravano tutti i giorni per il sultano erano tutti cristiani, frutto di quella “raccolta” che i giannizzeri facevano ogni quattro o cinque anni nei villaggi cristiani delle province balcaniche. Sceglievano i ragazzini più promettenti e li portavano a Costantinopoli, diventando così, “Schiavi della Porta”, proprietà del sultano, che aveva su di loro diritto di vita e di morte. Venivano reclutati schiavi cristiani, perché la Legge coranica vietava ridurre in schiavitù i musulmani. Naturalmente era un trauma per i ragazzi e le loro famiglie.
Peraltro le comunità musulmane di Bosnia ottennero, per via eccezionale, che anche i loro figli fossero ammessi al reclutamento. Così praticamente osserva Barbero, “l'impero ottomano era governato esclusivamente da uomini di origine modesta, di etnia non turca e nati cristiani, impressionava profondamente gli occidentali”. Il fiammingo Busbecq potè testimoniare che quelli che “ricevono i più alti uffici dal sultano sono in gran parte figli di pastori, ben lungi dal vergognarsi della loro origine...”.
Peraltro Marcantonio Barbaro si lamentava perché era costretto a trattare quotidianamente con loro, nati nella fede in Cristo, ma inesperti, servili, privi di ogni cognizione di governo, soprattutto arroganti, superbi, lussuriosi. I cinque visir avevano fatto questo percorso, come Perteu pascià, un albanese. Mehmet pascià, detto Sokollu, serbo di Bosnia. Pialì pascià era ungherese, figlio di un calzolaio. Lala Mustafà pascià, forse del Montenegro. Tra l'altro questi visir erano imparentati tra loro. Scrive Barbero: “Prodotti del devsirme, i visir erano coscienti di essere schiavi del sultano, che poteva farli strangolare se era insoddisfatto di loro [...]”.
E proprio questi erano “gli uomini – precisa Barbero – con cui Selim discusse la possibilità di una guerra contro Venezia, coll'obiettivo della conquista di Cipro[...]”. Selim non si confrontava solo con questi alti funzionari, ma molto più vicini erano anche gli abitanti del Serraglio: donne, eunuchi, i favoriti. Altro paradosso evidenziato nel libro è che gli abitanti dell'harem erano veneziani. “Era suddita veneziana, nata a Corfù, la concubina più amata dal sultano, Nur Banu, la 'Signora Luce', madre di suo figlio Murat”. Veneziano era anche l'eunuco preferito di Selim e tanti altri che servivano nella sua camera. Tuttavia dalle fonti studiate dall'autore di “Lepanto” si intuisce che nonostante tutto il sultano non era tanto propenso a fare la guerra ai veneziani. Secondo il vescovo Facchinetti, che è una fonte autorevole, tra tante altre, di cui si avvale Barbero, “Selim voleva spaventare i veneziani. In cambio di qualche concessione avrebbe rinunciato a conquistare Cipro”.
Tuttavia si lavorava per allestire una grande flotta, anche perchè c'erano quelli che volevano combattere, invadere i territori veneziani, a cominciare da Cipro. Il testo fornisce diverse informazioni sulla costruzione delle navi, le galere, serviva tanto legname, ma poi c'era la questione del reclutamento dei rematori. Per armare 130 galere occorrevano ventimila galeotti. Barbero utilizza diverse fonti che cita nelle numerose note alla fine di ogni capitolo. Infatti, Il libro ci fornisce precise informazioni sull'opera di reclutamento degli uomini che si potevano trovare tra i tanti forzati, ogni pena poteva essere commutata. Ma, “Il sistema era dispendioso sul piano umano, perché la maggior parte dei rematori doveva compiere un lungo viaggio prima di arrivare all'imbarco, e molti si ammalavano e morivano in strada[...]”. Perlopiù spesso erano contadini, gente scadente non adatta alla vita di mare. Oltre ai rematori serviva l'equipaggio, ovvero i marinai che manovravano il timone e le vele, da non confondere con la ciurma dei rematori. I marinai erano dei professionisti, regolarmente stipendiati, a Costantinopoli erano circa 3.000.
Tuttavia secondo Barbaro i turchi, un popolo privo di tradizioni marittime, scarseggiava di personale addestrato. Comunque il dato certo che emerge è che si faceva fatica a reclutare uomini per uscire in mare aperto. C'era una domanda che gli storici hanno formulato: “Ma le galere così faticosamente costruite, conservate precariamente nell'Arsenale e messe in mare quando il sultano ordinava, erano della stessa qualità di quelle costruite negli scali della cristianità?”.
La questione era molto dibattuta, tenendo presente che i turchi da poco erano diventati un popolo mediterraneo. Poi c'era un altro elemento da tenere presente e che preoccupava l'Occidente. “L'impiego delle maestranze proveniente dalla Cristianità” nell'Arsenale turco di Costantinopoli. Non mi soffermo su altri aspetti sulla tecnica della voga, del remo, adottata dai turchi, al pari degli spagnoli e dei veneziani. Tuttavia c'erano diverse scuole di pensiero. Secondo Barbero i veneziani erano convinti che le galere turche, al momento di combattere si sarebbero rivelate un avversario non all'altezza. Le voci si rincorrono tra gli informatori, la guerra contro Venezia è certa, e la flotta che stavano preparando a Costantinopoli era destinata all'impresa di Cipro. E qui torna a diventare protagonista ancora una volta, il bailo Marcantonio Barbaro con le sue informazioni e i suoi pareri, le rassicurazioni. Il Barbaro, rileva lo storico torinese, aveva sempre il timore che le sue lettere fossero intercettate e non giungessero a destinazione, per questo poi abitualmente ne mandava più copie e per strade diverse.
Le minacce turche su Cipro si susseguivano: se Venezia non cederà Cipro con le buone, la perderà con le cattive. Al Barbaro allora non gli resta che protestare con il sultano, lamentandosi della rottura del Trattato. Seguendo le tesi del bailo veneziano si può capire che i commercianti veneziani, pur di non perdere i loro ricchi traffici con i turchi, sarebbero disposti a cedere Cipro senza combattere. Intanto anche Venezia pensa di armare la flotta, all'Arsenale si lavora alacremente giorno e notte e si cerca di reclutare gente in mezza Italia. Il Barbero elenca i vari intrecci di interesse che stanno intorno alla costruzione di una galera.
In particolare quelli del patriziato veneziano non molla il monopolio dei comandi navali, fra i governatori della flotta armata nella primavera del 1570 ritroviamo tutti i nomi noti dell'oligarchia veneziana: otto Contarini, cinque Barabarigo, quattro Donà, tre Tiepolo, due Dandolo, due Morosini...Intanto servivano 10 mila rematori, reclutati attraverso le corporazioni artigiane e le confraternite e non erano pochi in una città di 150.000 abitanti. Ma c'era la renitenza, “chiunque ne avesse i mezzi si pagava un sostituto, dando vita a un fiorente mercato di cui erano protagonisti soprattutto gli immigrati balcanici”. E qui come altrove, le fonti sono importanti, per avere informazioni certe e non vaghe. Basta dare un'occhiata alle note, ricorrono i soliti nomi. Contarini, Setton, Paruta o Vargas Hidalgo. Buonrizzo. Gli uomini provenienti dalla Terraferma, per esempio le ciurme “lombarde” erano scadenti. C'era una scarsa propensione marittima. Discorso diverso per le città e i territori dalmati.
Un altro grosso problema era quello dei rifornimenti, una flotta numerosa aveva bisogno di enormi scorte di biscotto, che costituiva il principale nutrimento dei rematori, l'unico fornito dal governo della Repubblica. Si trattava di trasformare il grano dei magazzini di Venezia in biscotto e inviarlo in mare con la flotta. In questo capitolo il Barbero si occupa di descrivere i vari bisogni delle navi pronti per combattere, oltre alla ciurma vera e propria, la necessità di diversi specialisti per ogni galera, gli artigiani, i bombardieri, tre o quattro per ogni galera, addetti all'artiglieria di bordo; c'era pure il cappellano per il bisogno e il conforto spirituale.
Naturalmente per affrontare il combattimento servivano i soldati, la quantità degli “uomini da spada”, come si diceva a Venezia. Anche perchè poi, il combattimento, alla fine, si risolveva, in uno scontro corpo a corpo sui ponti delle galere incastrate l'una nell'altra. La maggior parte di combattenti sulle galere veneziane era costituita da “scapoli”. Si trattava in maggioranza di balcanici, capaci di lavorare a bordo per diverse funzioni.
A questi si aggiungevano i gentiluomini che alla notizia della guerra, affluivano da tutta Italia, senza stipendio, mossi dal solo gusto dell'avventura e dallo spirito della crociata. E comunque fa notare il Barbero che l'epoca di cui si occupa il suo libro, si caratterizzava dall'essere “una società militare, piena di veterani, esperti sempre pronti a riprendere servizio quando si presentava l'occasione, e sovrabbondante di giovani disoccupati disposti ad arruolarsi”. Nel 6° capitolo, Barbero segue l'operazione di reclutamento dei soldati del marchese Sforza Pallavicino.
Mentre il comando della flotta che doveva andare a proteggere Cipro fu affidato a Girolamo Zane. La flotta turca poteva uscire in mare il 23 aprile, festa di San Giorgio, e altro paradosso a meraviglia di chi non conosce: gran parte dei marinai e dei rematori sulle galere ottomane erano greci cristiani, peraltro, scrive Barbero, “ben felici di prendere il mare sotto la protezione di agios Georgios”. Un santo che aiutava i naviganti. Subito le spie e informatori si sono messi in moto. Per i veneziani il timore era la caduta dell'isola di Corfù, una specie di antemurale dell'Italia, la strada per l'Adriatico sarebbe stata aperta.
Avrebbe intrappolato la flotta veneziana nell'Adriatico. Anche i turchi erano consapevoli dell'importanza strategica di Corfù. A questo punto inizia il lungo lavoro di ricucitura del mondo Occidentale del Papa Pio V, “realizzare un progetto che sognava da tempo: l'unione delle potenze cristiane per affrontare gli infedeli in mare con forze schiaccianti e mettere fine una volta per tutte alla minaccia che gravava sulla Cristianità”. Attraverso la mediazione del Papa, spagnoli e veneziani da sempre nemici, costretti ad allearsi, per far fronte comune contro l'infedele turco. Pertanto a Venezia si sperava che i turchi, sapendo di dover affrontare anche le galere spagnole, oltre a quelle della repubblica, avrebbero potuto rinunciare al loro progetto egemonico.
Allora inizia il lungo lavoro diplomatico di convincimento del Re Cattolico Filippo II da parte dell'ambasciatore Sigismondo Cavalli. Per Barbero si trattava di vincere una guerra psicologica, per non essere costretti a fare quella vera. Entra in scena un altro straordinario personaggio il giovanissimo fratellastro di Filippo II, don Juan d'Austria figlio di Carlo V. Che poi doveva diventare il comandante supremo della flotta cristiana da contrapporre a quella turca.
La Spagna che era una potenza navale, ma in quel momento inferiore a quella veneziana e turca, inizia a lavorare nei suoi arsenali, di Barcellona, Napoli e Messina. Le difficoltà di costruzione e di mettere in mare le galere sono state evidenziate da Barbero, ma anche del reclutamento delle ciurme. Nei regni del Re Cattolico, come negli Stati italiani, tranne Venezia, non esisteva l'obbligo dei sudditi di servire in galera.
Anzi c'era l'opinione che era immorale. Ma nel 1570, Pio V, secondo Barbero, si lasciò convincere a proclamare la coscrizione nello Stato pontificio per poter armare anche lui qualche galera. Il problema non era solo morale, “era anche un problema di diritti che non si potevano violare, in regni come quelli del Re Cattolico che erano ben lontani dal trasformarsi in una monarchia assoluta”.