27 Novembre 2024

Riscoprire la dottrina cattolica attraverso il gioco del calcio


Mentre assisto malvolentieri alla sbornia calcistica degli Europei 2020, mi è capitato di leggere un insolito libretto, che ha la pretesa di “riscoprire la dottrina cattolica con il gioco più bello del mondo”: il calcio. È una presunzione, una scommessa impossibile? Per il professore Corrado Gnerre, che insegna antropologia filosofica, Storia della filosofia e Storia delle religioni, nulla è impossibile. Così dopo qualche dubbio nel trattare l’argomento il nostro professore ha partorito, “Il Catechismo del pallone. Per gli appassionati del gioco più bello del mondo”, pubblicato da Mimep Docete (2014).

Comunque sia gli indugi spariscono quando la prefazione al libro viene fatta da un ex calciatore e da un allenatore illustre del calibro di Giovanni Trapattoni.

Per la verità in certi passaggi del libro, Gnerre non mi è sembrato abbastanza convincente, in particolare quando ha utilizzato certe tesi filosofiche e teologiche. E tuttavia se “il calcio è solo un gioco, ma un gioco che aiuta a ricordare all’uomo che la vita non è un gioco…ma una cosa seria”, l’opera di Gnerre meriterebbe più attenzione, soprattutto in certi ambienti oratoriali, dove è possibile fare un po' di apostolato fra i ragazzi.

Trapattoni è convinto che lo sport possa insegnare molto, soprattutto il calcio. L’ex allenatore è contento di averci messo la faccia in quest’opera, “sono contento per ciò che dice il testo, per l’idea assolutamente originale e che – ne sono convinto – colpirà molti”. La sua convinzione si rafforza quando ha saputo che l’editrice Mimep-Docete, lavora nel campo della catechesi, gestita da un ordine religioso femminile, questo gli ricorda la sua cara sorella suor Romilda, che lo ha sempre consigliato nel suo lavoro. Pertanto, un forte incoraggiamento da allenatore: Forza Corrado, Forza Mimep, “io dalla panchina vi incoraggio di cuore”.

Perché il calcio è lo sport più seguito del mondo? Probabilmente perché più di tutti è metafora della vita. Addirittura, Gnerre arriva a scrivere che “il fascino del calcio sta nel fatto che è lo sport che più chiaramente esprime la verità cattolica”. Anche se subito chiarisce, che il calcio non è nato per esprimere una verità del genere.

Inoltre, Gnerre prima di passare all’esposizione del testo vuole precisare che non intende legittimare le tante degenerazioni di questo sport. Lo vediamo ogni anno che passa, soprattutto quando inizia il “calciomercato”, con le cifre da capogiro per acquistare o vendere gli strapagati e viziati calciatori. In questi giorni ha destato un certo scandalo la cessione del giovane portiere del Milan, Donnarumma, ma anche quello dell’allenatore Antonio Conte che lascia l’Inter per altre società più ricche. L’enorme giro di denaro è una vera offesa ai tanti problemi sociali, soprattutto ora dopo la pandemia, con l’aumento dei poveri. Non è ragionevole assistere ai “costumi capricciosi e diseducativi di tante ‘stelle’ del pallone, fino alla violenza delle tifoserie che noi poveri contribuenti dobbiamo pagare per i tanti ‘ straordinari’ che le forze dell’ordine devono fare in occasione delle partite”. Gnerre in questo caso deplora quel clima di “vietato vietare”, anche dinnanzi alle intemperanze si cercano spiegazioni sociologiche che finiscono sempre per giustificare l’ingiustificabile”.

Mentre ricorda a se stesso che nella sua professione di insegnante utilizza spesso simbologie anche di tipo sportivo, soprattutto calcistico, entra nel vivo del libro, stilando un elenco di sette punti dove il nostro dimostra che il calcio è uno sport “cattolico”. Sostanzialmente il libro appare come un’intelligente operazione con cui l’Autore, con la “scusa” del calcio, spiega in maniera chiara e precisa le verità fondamentali del Cattolicesimo. Gnerre nei primi capitoli cerca di dare le motivazioni per cui il calcio è cattolico, ne seguono altri con accostamenti originali, un campione per ogni virtù teologale, cardinale e per i sette doni dello Spirito Santo, infine alcuni capitoli di opinione, fra cui l’intrigante “L’acqua santa del Trap”.

Gnerre prende come riferimento l’intramontabile e sempre utilissimo Catechismo di San Pio X; anzi, non manca di fare una sana e breve polemica sui catechismi moderni che finiscono con l’insegnare molto ma non le verità fondamentali della Fede.

Il primo punto: “è l’unico sport in cui è frequente il pareggio”. Secondo: “è l’unico sport in cui può vincere non solo la squadra debole, ma anche quella che gioca peggio”. Terzo: “è l’unico sport in cui non si deve essere totalmente selettivi dal punto di vista fisico”. Quarto: “è l’unico sport in cui salta la regola della bravura come soluzione infallibile”. Quinto: “è l’unico sport in cui non solo non è indispensabile, ma è perfino dannoso che i calciatori di una squadra siano tutti campioni”. Sesto: “è l’unico sport che esprime con chiarezza l’identità culturale di un popolo”. E forse proprio questa potrebbe essere una tesi debole. Settimo: “è l’unico sport in cui si è davvero lontani da ogni intellettualismo”.

Per ognuna di queste tesi Gnerre, propone argomenti legati al gioco e alle regole del calcio. Il pareggio rende profondamente questo sport cattolico, antiluterano e anticalvinista. Naturalmente cercherò di fare una sintesi, riportando solo alcuni esempi tra i vari capitoli, per rendere al meglio l’interessantissima idea dell’Autore.

“A differenza del calvinismo, nel cattolicesimo non solo Dio vuole tutti santi e quindi non decide parzialmente le sorti delle creature, ma il destino ultraterreno di ognuno è esito della libertà individuale, di come l’uomo decide di agire”.

In ogni punto Gnerre arricchisce il libro con esempi virtuosi di calciatori, squadre o allenatori, che hanno fatto bene in questo gioco, a volte anche nella vita. In questo spazio si fanno i nomi di Carlos Bilardo, l’allenatore dell’Argentina, ma anche Nereo Rocco, con la sua tattica del “catenaccio”.

Certo ci sono altri sport in cui la squadra meno favorita può vincere…ma vince perché gioca meglio, scrive Gnerre. Nel calcio può vincere chi gioca male, come il Chelsea, nella semifinale Champions League del 2012, contro l’invincible armada del Barcellona.

Un altro caso emblematico è la partita del 17 ottobre 1973, a Londra, nel mitico stadio Wembley, tra l’Inghilterra e la Polonia, di fronte a 100.000 tifosi. Finì in pareggio con grandi parate del grillo Tomaczescki, il portiere polacco. Assomiglia molto al miracolo riuscito “a metà”, alla nazionale ungherese che ha prima pareggiato (1a1) con la blasonata formazione francese, e poi stava andando ad espugnare il mitico “Allianz Arena”, di Monaco, battendo la Germania ed eliminandola dagli Europei, ma i tedeschi si sono salvati pareggiando negli ultimi cinque minuti.

Nella prospettiva calvinista, un esito di questo tipo sarebbe inaccettabile. La distinzione tra eletti e non eletti, implica non solo che ci siano sempre dei vincenti e dei perdenti, ma anche che i vincenti vincano convincendo, nel senso che devono anche visibilmente trionfare.

Nel calcio il fisico dell’atleta non è decisivo, il che non vuol dire che non sia importante, certamente non è decisivo. Anche qui Gnerre, fa diversi nomi: Giuseppe Massa, detto “Peppinello”. Era di statura bassa, napoletano, che ha giocato nel Napoli, nella Lazio, nell’Inter, nell’Avellino. E poi Garrincha, la famosa ala destra brasiliana, che sostanzialmente era un disabile, anche se leggero. Eppure, è diventato la pià grande ala destra della storia del calcio. Wilfred Hannes, difensore del Borussia Moenchledebach, anni 70, era cieco di un occhio, vinse tre campionati, due coppe Uefa. Gnerre precisa che aveva un tiro di una precisione straordinaria.

Nel calcio, in una squadra non basta avere un campione per fare una grande squadra. Gnerre fa l’esempio del Napoli di Maradona. Basta dare un’occhiata ai nomi, alla formazione di allora. “L’asso del calcio è determinante se è inserito in una squadra che è già forte, per cui gli avversari non possono permettersi di utilizzare un buon numero di difensori per bloccarlo, altrimenti gli altri…”.

Oltre a Maradona, si fa l’esempio di Paolo Rossi, il bomber del Lanerossi Vicenza.

Tra i tanti accostamenti di un campione per ogni virtù teologale, cardinale e poi per i sette doni dello Spirito Santo, sono interessanti quelli che ricordano la carità e il calciatore argentino naturalizzato spagnolo, Alfredo Di Stefano, forse il più grande calciatore della storia del calcio.

In maniera insolita Gnerre collega La Virtù Cardinale della Prudenza niente meno che a Maradona. Può sembrar strana la scelta del Pibe de oro, anche se chiarisce che l’argentino ha “manifestato un’enorme contraddizione tra la sua vita privata e il modo di giocare … è stato un cattivo maestro ed esempio di gravi intemperanze”, ricordando però come lo stesso non abbia mai avuto timore di professare apertamente la fede cattolica. Passa poi ad ulteriormente chiarire che “ciò è pericoloso perché può ingenerare la confusione (e quindi lo scandalo) secondo cui sarebbe possibile professarsi cattolico e farne di tutti i colori”, riconoscendo però che in tempi di politicamente corretto “non vergognarsi di dirsi pubblicamente cattolico è certamente cosa benemerita” e ricordando il Rosario sgranato da Maradona durante il Mondiale del 2010. Effettivamente l’accostamento di Gnerre con la virtù teologale per il calciatore argentino appare un po' forzata. Sembra invece più centrata quella con il calciatore Stefano Borgonovo. Che ha dovuto affrontare la brutta malattia della Sla.

Il Prof. Gnerre ne approfitta per individuare le origini delle difficoltà di accettare la sofferenza (molto alta ai nostri giorni). “…Spesso si crede di poter vivere senza portare con sé la Croce, anzi addirittura pretendendo di fare a meno della Croce e, senza di essa, non si potrà mai capire nulla della vita”, ma “la felicità che è data all’uomo (l’unica!) non è alternativa alla sofferenza, perché questa è ineliminabile, bensì alla disperazione, che è il soffrire senza però poter dare un senso alla sofferenza. La Croce è l’unico senso possibile che si può dare al dolore… Senza la Croce ogni dolore diventa insopportabile”.

Pertanto, oggi l’uomo, non credendo né nella vita eterna né tantomeno nel valore espiatorio della Croce, non sopporta più nulla e ogni dolore diventa di fatto insopportabile, ecco perché c’è una maggiore richiesta di eutanasia.

Borgonovo è dunque un esempio “…perché ha scelto la Croce e non la ‘comodità’ della spina staccata” segnando così “Un bel gol nella rete della cultura della morte dei nostri tempi!”.

Un ultimo accenno merita il capitolo, “Segni di Croce, sguardi verso il Cielo e … tradimenti”. Qui l’Autore sottolinea che il calcio, come tutti i fenomeni di massa, è specchio dei tempi, “vive in un certo qual modo una sorta di apoteosi della banalizzazione del sacro, di una sua deformazione, di trionfo – diciamocelo pure – della superstizione”.

Come in tutto il libro, anche qui si parte dal “pretesto” del calcio per arrivare ad una questione più ampia in materia di fede. “L’uomo ha bisogno di scoprire un fondamento per la propria vita, quando caccia il sacro dalla porta (succede quando rifiuta la dimensione religiosa in favore di agnosticismo e ateismo), il sacro rientrerà inevitabilmente dalla finestra, cioè rientrerà in maniera spuria, rientrerà come magia e superstizione”.

Detto questo, va ad elencare alcuni esempi opposti a quanto ora detto, proprio per evidenziare la coerenza con cui invece dovrebbero essere fatti certi gesti. E tra questi si può indicare l’aneddoto della mamma del grande Giuseppe Meazza (1910-1979) si chiamava Ersilia. Grande donna, faceva la verduraia a Milano.

Il suo piccolo Giuseppe, che già stravedeva per la sfera di cuoio (da bambino poteva giocare solo con una palla di stracci), aveva appena sette anni quando seppe che il papà era morto in guerra, era la grande guerra. La povera donna dovette vedersela da sola per mandare avanti la famiglia. E quando Giuseppe iniziò a calcare i campi di calcio più importanti, mamma Ersilia a cosa pensò? Nella sua praticità aveva capito che dare calci al pallone sarebbe stato il lavoro del suo Giuseppe, allora decise di far dire una Messa prima di ogni partita... e il suo Pepin divenne quello del faso tuto mi! Anche chi non conosce il milanese, sa bene cosa significhi: faccio tutto io. Meazza prendeva il pallone, dribblava il dribblabile... e insaccava impietosamente. Certamente, Meazza era un grande campione, ma la fede della mamma e le Messe che faceva celebrare... ci hanno messo il resto.

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